Fibrosi Polmonare Idiopatica


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Il silenzio

Un passo indietro….

Dalla presa di coscienza della malattia cresceva sempre più in me la convinzione di non avere speranze ma i miei pensieri non erano orientati alla mia salute, alla malattia, perché io non potevo farci nulla.
Ero nelle mani di Dio e della scienza.
La mia preoccupazione principale era lasciare orfani due bimbi piccoli, lasciare una famiglia senza sostentamento economico: il terrore di perdere il lavoro….
Purtroppo l’ambiente militare richiede determinati requisiti fisici che a me venivano a mancare e pertanto sarei stato congedato.
Ho iniziato a guardare il discorso pensioni in base ai contribuiti versati… mi aspettava un futuro breve e misero inoltre, se non potevo fare il mio lavoro non eccessivamente faticoso dal punto di vista fisico, cosa avrei potuto fare a 40 anni? Andare a lavorare in fabbrica? Ma se dovevo evitare sforzi….?!
Tutti questi tarli si erano impadroniti della mia mente.
E la disperazione di perdere un lavoro che adoro e per il quale sono sempre stato severo nell’espletarlo; severo inteso nei miei confronti come spirito di sacrificio era una delle angosce più grandi.


Non mi ritengo il classico super poliziotto dei film, non vanto operazioni eclatanti o indagini spettacolari ma amavo viverlo indossando l’uniforme a contatto con le persone, arrestando il delinquente ma soprattutto aiutando chi si trovava in difficoltà.
Vivere per gli altri era la mia soddisfazione: creare rapporti umani positivi anche con la persona che “vive ai margini della società” era la soddisfazione maggiore, quella che mi faceva sentire orgoglioso di ciò che facevo e che non mi faceva pesare di andare a lavorare nei giorni di festa, di notte, con il sole o la pioggia, di rinunciare a tante cose; anche se le principali vittime di tutto questo erano i miei figli e mia moglie.
Ma questo è l’orgoglioso lavoro del poliziotto e io non volevo perderlo.
Per questo ho continuato a lavorare senza dire nulla a nessuno, facendo tutto quello che potevo.
Spesso, soprattutto di notte, mentre ero impegnato a redigere atti relativi a interventi effettuati, nel silenzio dell’ufficio e mentre il collega era impegnato in altre attività, i miei pensieri partivano da soli e mi ritrovavo a piangere di disperazione.
E miei pensieri sono sempre stati “anarchici” fissi sulla malattia, ogni secondo della mia giornata, per mesi... tenendomi compagnia anche di notte nei miei incubi.

Non c’era giorno che non andassi a cercare su internet, ormai avevo visitato tutte le pagine possibili, le conoscevo a memoria, le rileggevo continuamente come un ossesso.
Come se non bastasse, casomai ci fossero momenti in cui potevi non pensare, erano gli altri, amici e conoscenti che te lo ricordavano.
Non lo facevano sicuramente apposta, ma era normale che vedendomi più “in carne” lo facessero notare, in maniera scherzosa a volte, quasi con amichevole rimprovero le altre.
E ogni volta era una pugnalata perché adducevo mille scuse, abbozzavo la situazione incolpando la mia pigrizia, i piatti di pastasciutta in più…
Facevo buon viso a cattiva sorte ma dentro mi logoravo di disperazione.
Poi le dita…la loro forma…..anche quello mi veniva fatto notare, erano effettivamente evidenti anche se io non ci avevo mai fatto caso.
E anche per le dita dispensavo falsi sorrisi dicendo che le avevo avute sempre così e fingevo di ridere di me stesso, stavo al gioco.
Ma non me la sono mai presa con chi mi stava davanti perché si comportava nel più naturale dei modi, come anche io i sarei comportato.
Perché non sapeva, perché io non dicevo.
La rabbia più grossa era nei miei confronti perché riconoscevo di non avere il coraggio di parlarne, nascondevo tutto, avevo paura.
La paura che si sapesse in giro, che potessi perdere subito il lavoro.

Ma la malattia è “ingravescente” cioè non regredisce ma aumenta sempre più.
A metà novembre 2008 mi reco a Milano con mia moglie per visitare una fiera.
Ci arrivo con la febbre alta, classici sintomi influenzali, mi trascino tra gli stand come un cadavere…poi torniamo in macchina.
Inizio a tossire, dolori dappertutto e una forte crisi respiratoria.
Non chiamai il 118 solo per non mettere in difficoltà mia moglie, eravamo lontani da casa così mi metto alla ricerca di una farmacia e dopo una tachipirina sto benissimo.
Torno a casa e la mattina dopo indosso la mia bella uniforme per andare al lavoro ma prima di uscire provo a misurarmi la febbre, per scrupolo perché effettivamente non me la sentivo: 39°!!!!
Inizio ad aver paura…capisco che, come a marzo, poteva accadere qualcosa.
Mi indicarono la febbre di marzo come un episodio scatenante della malattia, il suo primo eclatante esordio.
Passo cinque giorni a casa con febbre altissima che non ne voleva sapere di scendere, poi pian piano ritorno alla normalità.
Riprendo a lavorare ma sento che qualcosa è cambiato, mi rendo conto che i miei valori sono bassi……92/93.
Dopo pochissimi giorni di lavoro nuovamente a casa con virus intestinale e febbre…le stavo prendendo tutte e ogni volta peggioravo.
Finalmente il 1° dicembre sono a Padova per la visita specialistica.

Il 16 dicembre, per ulteriori accertamenti e su indirizzo di Padova, prenoto una visita
presso l'ospedale G.B. Morgagni di Forlì con il Professor Venerino Poletti a seguito della quale effettuo un day-hospital seguito direttamente dalla Dottoressa Sara Tomassetti, professionista eccellente e persona umanamente straordinaria la quale, al termine degli esami, mi prospetta la necessità di ricovero immediato in quanto l’emogasanalisi aveva riscontrato valori minimi.
Ero arrivato a Forlì senza ossigeno, dovevo ancora definire troppe cose e comunque stavo già lavorando in ufficio pertanto senza sforzi, non potevo quindi ricoverarmi così d'improvviso e rifiutai.
Ma su prescrizione e dietro mia promessa, tornato a casa, inizio l’ossigenoterapia domiciliare, 24h al giorno tranne le sei di lavoro.
Rimango costantemente in contatto con Forlì per l'esito di alcuni esami e per le indicazioni sullo stato della malattia.
Una struttura ospedaliera d'eccellenza, il personale gentile con chiunque, lo staff medico altamente preparato e la certezza di essere costantemente seguito.
Non è una sviolinata gratuita, è ciò che è accaduto, ciò che difficilmente ti aspetti da una struttura ospedaliera sopratutto al di fuori della tua città, in un posto dove entri sentendoti solo un numero ma ti rendi conto che non è così; difficile spiegare la sensazione che si prova ma è un pò come quando la mamma ti abbraccia.
Avere un numero diretto dove chiamare per qualsiasi informazione, essere richiamato per sapere come procede è una cosa rara, che ti lascia dapprima senza parole, ma poi con tanti interrogativi.
Perchè certe strutture operano così mentre altre sono sempre e solo delusione e negatività?
Non importa, non ho tempo ne voglia per farmi queste domande ma mi carico di fiducia.

Ma da quel 16 dicembre tutto precipita, giorno dopo giorno sento mancarmi le forze, ogni passo è una difficoltà e mezza rampa di scale una montagna da scalare.
Mi rendo conto della gravità e il 25 gennaio è il mio ultimo giorno di lavoro.
Avevo resistito fino all’ultimo respiro, mi ero aggrappato puntando le unghie come il gatto che non vuol scendere dal divano ma ora non era più possibile.
Valori di ossigenazione di 88 a riposo che scendevano a 70 solo facendo qualche metro non erano un campanello d’allarme ma una vera e propria sirena di allarme della mia vita.
Negli ultimi giorni non mi ero tirato indietro da nessun servizio, anzi ero io che lo cercavo nella consapevolezza fosse l’ultimo…. l’ultima uscita in macchina, l’ultimo giorno da poliziotto.
E i colleghi mi dicevano "sei abbronzato"...NO, ero paonazzo....

Ora ero a casa, contattai l'Ospedale di Padova e rimasi in attesa del ricovero.
Ora avevo paura, sapevo che non potevo più scherzare, che dovevo pensare alla salute e inizio a vivere l’attesa della chiamata in maniera nervosa, mi sentivo di perdere tempo, giravo per casa continuamente, non facevo che mangiare dal nervoso.
Negli ultimi periodi solo le persone più intime erano a conoscenza del mio problema e sul lavoro solo chi era a stretto contatto con me sapeva e comunque aveva intuito dalle mie mezze verità ma anche dal mio aspetto che non riusciva a nascondere bene i sintomi.
Non avrò mai parole per ringraziarli per l’atteggiamento protettivo e l’interesse sincero che mostravano nei miei confronti.
Silenziosamente mi aiutavano e questo mi faceva capire che il mio atteggiamento era sbagliato ma ancora ero lontano dall’aprire gli occhi.
Come rovescio della medaglia ti rendevi conto che avresti perso sotto il profilo lavorativo e umano delle persone stupende e questo rendeva tutto più difficile.
Ho lasciato il mio Ufficio una mattina di domenica, piangendo e abbracciando un amico....
la mia avventura in Polizia finiva li e li lasciavo una parte del mio cuore.....


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